Tullio Zanier
Treviso - Galleria La Cave, 25.1.1982
La pittura di Giovanni Gambasin, autentico autodidatta molto giovane, ha pur tuttavia già raggiunto un livello sicuramente promettente negli esiti e nelle potenzialità insite in essi. Egli ha spontaneamente aderito ai modi del fare surrealista, senza trapassi o oscillazioni iniziali, con l’immediatezza di una scelta istintivamente congeniale, al punto che, dopo che aveva acquisito quei modi e quelle strutture si riconobbe nella temperie delle avanguardie del surrealismo storico novecentesco (Dalì, Tanguy, Mirò), come un fiore selvaggio che ha assorbito la linfa vitale d’un terreno a lui più congeniale. Ma a ciò si è aggiunto anche un proprio bagaglio di forme espressive e simboli: cioè gli spazi di vastità illimitata in cui si collocano cose e oggetti di dimensioni infinitesime che in quello spazio si perdono in un’atmosfera angosciosa come di chi si è sperduto e non ha più speranza di ritrovarsi e per di più il colore freddo e purissimo (predominanza assoluta di cilestrini tenui tenui, e ocra sfumatissimi, gli altri colori sono appena appena impiegati e si annegano, mi si passi la parola, nell’immersione del lago infinito e lucidamente abbagliante dei colori dominanti), una assoluta asetticità che accentua il senso di angosciosa e disperata dispersione in una infinità fatta di nulla. Moduli onirici, si afferma, tipici delle forme surrealiste psicanalitiche: ma l’enigmaticità intensa di essi si connota anche di tipologie alludenti a proprie vicende e motivi autobiografici ove parla forse più propriamente che il sognato, l’affiorare di tali memorie e reminiscenze che si esprimono e si travestono nei modi bretoniani dell’automatismo della scrittura.